Il romanzo giallo e il fascino del mistero
Tra gli appassionati di gialli, chi non ha mai cercato tra le pagine di un romanzo noir o nelle puntate di una serie TV crime di intercettare tra i dettagli di una storia criminosa il modus operandi di un killer o la firma dell’offender? Chi non ha mai tentato, attratto dalle storie horror, di capire le caratteristiche della vittima di turno, indossando gli abiti da profiler, come un novello Sherlock Holmes? Per un amante del mistero, nulla di nuovo all’orizzonte.
Il romanzo giallo rappresenta un genere particolarmente interessante da un punto di vista cognitivo. Abbiamo un crimine, un atto che da un punto di vista psicologico rappresenta una decisione: la scelta di violare una serie di norme (morali, emotive, sociali, relazionali, legali) per ottenere vantaggi, riparare a un torto o in preda a uno stato emotivo alterato. Tuttavia, non è solo il crimine o il criminale a essere psicologicamente interessanti. La maggior parte dei romanzi gialli si sofferma in primo luogo sulla figura del “buono”, colui che deve capire chi ha commesso il crimine e magari evitare che ne commetta di nuovi.
Il true crime: perché il genere affascina tanto?
A una prima impressione, si direbbe che la curiosità per macabri fatti di cronaca, che diventano onnipresenti nei palinsesti TV, nasca in un contesto di “tedio esistenziale”, a metà strada tra pruderie e voyeurismo. Tutto sembra andare di pari passo con il desiderio di spezzare la monotonia della routine, affamati di terribili disgrazie (altrui) e timorati di Dio, purché si imputi sempre all’altro la colpa di un delitto.
Ma perché il genere true crime spopola così tanto? Dove affonda le radici l’interesse per il crimine efferato? Il mondo ha sempre cercato di vedere incarnato il male fuori da sé. La psicologia del profondo suggerisce che ciò di cui siamo inconsci in noi stessi sembra sempre provenire dall’esterno. Ma che succederebbe se le due strade si intersecassero? Se il riservato collega d’ufficio fosse un killer edonista e lo studente modello un aggressore seriale per noia? Il sospetto che la follia possa risiedere anche in noi stessi non desterebbe forse sconcerto?
L’effetto Lucifero e la psicologia del male
Lasciandoci alle spalle le obsolete teorie lombrosiane sulla localizzazione anatomica del crimine, la psicologia sociale ha sempre cercato di capire il ruolo del contesto nel determinare i comportamenti.
Lo psicologo Philip Zimbardo, con il suo celebre esperimento carcerario di Stanford nel 1971, ha dimostrato che una persona può diventare buona o cattiva in base ai fattori ambientali e al ruolo che ricopre. I partecipanti, divisi tra guardie e prigionieri, svilupparono comportamenti estremi: le guardie divennero sadiche e i prigionieri subirono crolli emotivi. Zimbardo coniò il termine “Effetto Lucifero” per descrivere il meccanismo psicologico per cui il contesto influenza il livello di aggressività di un individuo. Questo esperimento ci fa riflettere sulla sottile linea rossa che separa il bene dal male.
Il dualismo vittima-carnefice
Molte volte, nei casi di cronaca nera, si sente dire: “Era una persona tranquilla”. È proprio questa discrasia tra la maschera della normalità e la violenza nascosta che porta l’uomo comune a voler indagare sul mistero del crimine.
L’idea di mettersi nei panni del criminale serve a proiettarci, per qualche episodio, in una realtà parallela dove il lato oscuro può emergere senza conseguenze reali. Il vero brivido, tuttavia, sta nel sospetto che potremmo condividere tratti con l’assassino, il che ci porta a preferire il ruolo di osservatori giudicanti, al sicuro dietro uno schermo.
Altre volte, ci immedesimiamo nella vittima, provando empatia e paura, consapevoli che il caso potrebbe coinvolgere chiunque, noi compresi. Oppure, spinti da un desiderio di giustizia, ci identifichiamo con l’investigatore, indossando metaforicamente il suo impermeabile e cercando di risolvere il caso.
Le caratteristiche cognitive del romanzo giallo
Un buon poliziesco dovrebbe nascondere e svelare nello stesso momento. Secondo Lisa Zunshine, un autore abile inganna la mente del lettore attraverso la proliferazione di potenziali bugiardi, facendo sospettare di molti personaggi anche se il colpevole è uno solo.
Tuttavia, questa tecnica deve essere dosata con attenzione: troppi personaggi e troppi intrecci possono causare sovraccarico cognitivo, rendendo difficile la comprensione della storia. La nostra memoria di lavoro ha limiti e un eccesso di informazioni può generare confusione e frustrazione nel lettore. Inoltre, la nostra capacità di attribuire stati mentali agli altri – chiamata “teoria della mente” – funziona meglio con pochi personaggi alla volta.
Conclusioni: tra paura e curiosità
Il true crime è un prodotto accattivante dei media moderni che offre agli spettatori la possibilità di esplorare il dualismo vittima-carnefice, immedesimandosi nei vari ruoli. Forse, siamo anestetizzati dalla violenza quotidiana della cronaca e, al tempo stesso, desideriamo emozioni forti. O forse, il brivido del crimine ci serve a capire meglio noi stessi, portandoci a riflettere sulla domanda più inquietante di tutte: “Chi sono io?”